Un inizio subdolo, con piccole dimenticanze, episodi di disorientamento, poi il peggioramento progressivo fino alla fatica nel riconoscere persino i familiari e bisogno di aiuto per le attività quotidiane anche più semplici;  la malattia di Alzheimer è la forma più diffusa e conosciuta di demenza, uno stato cioè di progressivo deterioramento delle funzioni cognitivo-neuropsicologiche (memoria, orientamento, attenzione, linguaggio, prassie, percezione etc), diffusa soprattutto sopra i 60-65 anni di età, con una stima – in Italia – di circa 500 mila ammalati (EpiCentro dell'Istituto Superiore di Sanità). Secondo le ultime stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2050 le persone colpite da Alzheimer saranno più di 107 milioni

Con cure farmacologiche prevalentemente rivolte al contenimento dei sintomi iniziali più che alle cause, dal 2003 solo quest’anno arriva notizia dell’approvazione americana del primo farmaco – Aducanumab - agente diretto su uno dei meccanismi patogenetici del morbo. Si tratta di un anticorpo monocolonale diretto in modo specifico contro gli oligomeri di beta amiloide e contro le fibrille amiloidi presenti a livello cerebrale nell’ Alzheimer. Nuove speranze ma ancora molte ombre sulla reale portata clinica di questa notizia. Un’approvazione, quella della FDA americana, solo “condizionata”, con richiesta di nuove prove di efficacia e sicurezza, riconoscendo che gli studi clinici attuali sul farmaco hanno fornito evidenze del tutto incomplete ed anche contraddittorie in merito. ll farmaco inoltre sarebbe ideato solo per pazienti con lieve declino cognitivo, agli esordi della malattia, che però non sempre è facile da diagnosticare a tale stadio.

I limiti degli approcci farmacologici, hanno contribuito nel tempo allo studio di altri tipi di tentativi finalizzati al contenimento del declino cognitivo e al mantenimento più prolungato possibile di uno stato di benessere e di qualità di vita. In centri ospedalieri specializzati vengono ad esempio proposte sedute di trattamenti di stimolazione cerebrale non invasiva, come la TMS (Stimolazione Magnetica Transcranica) o la tDCS (Stimolazione transcranica a corrente continua).

Negli ultimi anni si è assistito anche ad una crescita di interesse rispetto alle potenzialità, in fase di malattia da lieve a moderata, della stimolazione o riabilitazione cognitiva. Psicologi-neuropsicologi lavorano con l’utilizzo di training, esercizi cartacei o informatici, volti a stimolare la memoria, l’apprendimento, le funzioni del linguaggio espressivo, l’attenzione e le funzioni esecutive.  Parallelamente molto diffusa è la combinazione dell’utilizzo della Terapia di Orientamento alla Realtà (ROT), della stimolazione della memoria di eventi passati ed autobiografici attraverso la Tecnica della Riminiscenza e l’approccio di Rimotivazione a sentirsi attori attivi ed artefici della propria realtà.

Pur non potendo ambire a potenzialità guaritive ne di ripristino delle funzioni perdute, la stimolazione cognitiva supporta il paziente valorizzando le capacità residue, promuovendo strategie compensative, mantenendo il più a lungo possibile autonomie funzionali, riducendo l’eccesso di disabilità nell’ottica della tutela del valore umano della persona anche nei limiti imposti dalla patologia.

 

La malattia colpisce la memoria e le funzioni cognitive, si ripercuote sulla capacità di parlare e di pensare ma può causare anche altri problemi fra cui stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale.

Un costo enorme a livello psicologico per i malati e le famiglie, ma anche notevoli ricadute materiali: secondo una recente ricerca del Censis il solo costo diretto dell'assistenza è di 11 miliardi l'anno, oltre il 70% a carico delle famiglie. Prende il nome da Alois Alzheimer, neurologo tedesco che per la prima volta nel 1907 ne descrisse i sintomi e gli aspetti neuropatologici.

 

 

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